Il suo viso era oscurato dalle gocce di pioggia che erano cadute sul parabrezza dell’auto la notte precedente, ma i suoi occhi castani, limpidi e soprattutto lucidi li vedevo benissimo.
Se ne stava ferma come un piccolo soldatino di piombo di fronte a casa e muoveva leggermente la mano sussurrando qualcosa con un filo di voce. Poi, senza farsi troppo notare, cercò di fermare con due dita una lacrima che le stava per bagnare il volto.
Eppure era stata lei il giorno prima a raccomandarmi ventimila volte che non avrebbe voluto saperne di “saluti da femminucce” (era così che li chiamava papà) o pianti di addio.
In fin dei conti non si trattava di un addio, ma di un semplice “a presto”.
Seduta sul sedile posteriore della macchina cercavo di evitare in tutti i modi il suo sguardo.
Avevo provato ad osservare i lacci delle scarpe fluorescenti di Sannamari, la vicina che agitava il braccio dalla finestra di casa sperando di essere notata, la legna accatastata vicino al garage che ormai non serviva più perché sarebbe arrivata l’estate da lì a poco.
I miei occhi erano attratti dai suoi e ogni volta che incrociavo quello sguardo cercavo di trattenere dentro di me un groviglio di emozioni che non riuscivo chiaramente a descrivere a parole.
Penso si trattasse semplicemente di amore.
Ripensai poi alla sera precedente, nonna si era presentata per cena con una bottiglia di vino in mano e alzandola verso l’alto aveva esclamato: “Dobbiamo fare un brindisi! Un brindisi a noi, al destino, alla vitalità che hai portato in questa casa, ogni volta che ti vedo mi sento quasi una ragazzina. A proposito di ciò, grazie, mi hai fatto risparmiare il massaggio antirughe dall’estetista questa settimana.”
Ci avevo messo un po’ a capire la sua battuta, poi avevo raccolto le sue mani tra le mie e le avevo portate entrambe vicino
al cuore. Era una signora anziana ma aveva ancora tutte le energie del mondo e con la sua dolcezza mi aveva conquistata subito.
Papà le si era avvicinato da dietro, le aveva messo una mano sulla spalla e aveva invitato entrambe a sedere a tavola con Sam e Aron. Sannamari si era alzata per prendere le sue polpette, mamma ne aveva assaggiata una e aveva subito iniziato a declamare, come sempre, una serie di complimenti infiniti affermando che non aveva mai assaggiato una carne più buona di quella.
Erano davvero deliziose.
Papà aveva fatto lo stesso ma nel frattempo era riuscito anche a tenere banco raccontando il nostro pomeriggio.
Io e Sannamari avevamo provato per la prima volta a fare surf e non ci eravamo soltanto divertite, ma ci eravamo innamorate di quello sport.
Le onde arrivavano talmente forti che quando non calcolavo bene il tempo che impiegavo per saltare sulla tavola e tirarmi in piedi mi travolgevano in un baleno.
E così effettivamente era successo, per la precisione era accaduto circa il 90% delle volte.
Ricordo molto bene, però, una delle poche volte in cui ero riuscita a cavalcare la tavola.
Il filosofo Hegel, un giorno, vedendo Napoleone disse: “Ho visto lo spirito del mondo seduto a cavallo che lo domina e lo sormonta.”
Bene, io mi ero sentita esattamente come Napoleone, con la differenza che ero consapevole di essere in piedi su una tavola da surf e soprattutto di essere Sara.
Ogni volta che riuscivo in quell’impresa mi esaltavo così tanto che cadevo in acqua in modo rocambolesco e, puntualmente, non appena la mia testa spuntava nuovamente fuori si sentiva una voce acuta provenire dalla spiaggia che urlava: “Brava dolcezza, stai andando a meraviglia! Continua così!”. Mamma mi aveva sostenuta tutto il pomeriggio con grande entusiasmo.
Papà mi aveva fatto alcune foto e poi mi aveva aiutato a salire di nuovo sulla tavola. Io e Sannamari, come ogni volta, ci eravamo lanciate uno sguardo di sfida, accompagnato ovviamente da un sorriso e ci eravamo spinte il più velocemente possibile con le braccia per arrivare prima dal maestro che ci aiutava a prendere l’onda giusta.
In verità non ricordo bene se la gara fosse davvero per prendere l’onda o proprio per arrivare per prima dal maestro, prototipo di maschio australiano.
Il mio pensiero venne richiamato alla realtà quando il motore della macchina si accese.
Prima che la macchina s’immise nella corsia mamma fece una corsa, bussò al finestrino e non appena lo abbassai sporse la testa all’interno e sussurrò dolcemente: “Vi aspetto il prossimo inverno perché da ora in poi non potrò resistere più di un anno senza pasta e polpettine finlandesi.”
Le promisi che sarei tornata, le mandai un bacio e tirai su il finestrino.
“Ho trovato, o meglio, costruito insieme a lei, Sannamari e papà una famiglia. La mia famiglia australiana.” Pensai io da ultimo.