Sinceramente, non credevo si potesse vedere e imparare così tanto senza dover aprire un libro.
Di solito la gente pensa (ed è stato decisamente il mio caso) che spingersi troppo lontano, in un luogo troppo diverso, non porta mai a qualcosa di buono. Io, ad esempio, ad un certo punto avevo paura di non riuscire a partire per problemi di date con la scuola, in più per questo non avevo ancora avuto contatti con una famiglia ospitante e, preoccupato, in mancanza di altre motivazioni, pensavo quasi di lasciar perdere. “Chi me lo fa fare?” dicevo, come molte persone a cui avevo detto del viaggio e che cominciavo a prendere in considerazione. “Perché devo tornare ai nomadi (e lì sì, sono veramente nomadi) se posso andare in un gran bel posto organizzato, comodo, dove non devo sentirmi a disagio?”. Però, a parte il fatto che l’organizzazione è stata molto flessibile e attenta alle mie esigenze (e ciò mi ha fatto sentire più al sicuro), pensavo anche: “Beh, se esiste un posto dove provare è possibile, questo è la Mongolia”.
E che posto! Un tuffo nella natura selvaggia, dove bisogna letteralmente faticare per trovare dove dormire e dell’acqua perlomeno da bere (per tutto il resto c’è tè bollente). Difatti mai stato così sporco in vita mia, ma probabilmente è colpa mia, visto che non ho ancora capito come facesse la gente del luogo ad essere sempre a posto. E poi decidere se sarebbe stato meglio scappare a gambe levate al solo sentire tali cose, o magari che cambiare radicalmente vita per un paio di settimane non sia stata poi una cattiva idea.
All’inizio può sembrare difficile ambientarsi con la propria host family, soprattutto se si ha qualche problema con l’inglese e se, ad esempio, manca del tutto la doccia o quando (a volte) manca l’acqua, o, semplicemente, per problemi di dieta (in Mongolia il cibo può essere molto “organico”). Ma, vi dirò, per me era la prima esperienza molto lontano da casa da solo ospitato in un’altra famiglia, e il trucco è stato mettersi nella posizione di chi ha rispetto di un’altra cultura e che, con curiosità, e non senza divertimento, prova tutto quello che gli capita, cercando di vivere come uno del posto. In questo modo è stato davvero molto suggestivo (anche con l’idea di uno scambio culturale) gustare deibuutz (spero si scriva così), cioè ravioli di montone, bolliti o fritti, e tutta la corta ma importante gamma di cibi tradizionali (d'altronde costa tutto così poco, se già non ti è stato offerto da una famiglia nomade di cui sei ospite); o magari vedere come se la cavano in città quando manca l’acqua, senza preoccuparsene troppo. Può anche capitare di trovarsi con i cosiddetti “nuovi ricchi” all’assalto di boutique europee e ristoranti di lusso. Personalmente, credo che difficilmente avrei potuto trovare una famiglia migliore, non perché era piuttosto benestante, ma perché in generale tutti, e dico tutti i mongoli che ho conosciuto (tassisti e studenti, imprenditori e commessi) sono tra le persone più ospitali sulla faccia della terra, a maggior ragione chi è scelto per ospitare un ragazzo straniero. Anche negli scambi passati, un punto fermo è stato la cordialità e la sicurezza delle host families. Per tutta la lunga lista di personaggi stravaganti e particolari (per noi) che si possono incontrare e le numerose prove (si fa per dire) che si devono affrontare, vi garantisco che è molto meglio che ne facciate conoscenza da soli (dovrete vedere le vostre facce).
La prima cosa a cui non si è abituati è che la Mongolia è immensa (cinque volte l’Italia). Lì sono quasi tutti nomadi, eccetto la capitale, Ulaanbaatar, che a tratti è una città più sovietica di Mosca, con larghi viali e palazzoni. Ciò che colpisce poi è il contrasto fra antichi monasteri (vaga testimonianza di com’era UB, come la chiamano i giovani, prima del piano sovietico) e i moderni centri commerciali. Infatti, Ulaanbaatar è l’esatto opposto dell’incontaminato paesaggio rurale: brulicante, dinamica e frizzante (per la vita notturna, ad esempio, o per la cultura anticonformista). Io, personalmente, sono stato particolarmente sorpreso dal traffico (sarà lo spirito guerriero, ma i mongoli non starebbero fermi in coda neanche un secondo), in particolare a bordo di un taxi che cerca di imporre la sua precedenza. In effetti è piuttosto complicato anche attraversare la strada (gli automobilisti, se ti vedono, accelerano, per avvisarti, i motociclisti ti evitano). In ogni caso, non mancano angoli tranquilli come i cortili dei monasteri o qualche museo. In quella che è la capitale più fredda del mondo (uno dei numerosi primati della Mongolia) vivono un milione e mezzo di persone, metà di tutti i mongoli; gli altri stanno nella “campagna”, come affettuosamente chiamano tutto ciò che è steppa, foresta o deserto.
Dopo un po’ che ero tornato a casa, quando avevo costantemente gli occhi rossi per lo smog anche solo uscendo a passeggiare nel parco, mi sono reso conto che in effetti io, come tutti noi occidentali, del resto, sono andato in Mongolia per vedere qualcosa di veramente immacolato, puro e semplice, dove l’ospitalità è realmente disinteressata e il parco (enorme e non recintato) è vero. La cosa stranissima della “campagna” mongola è che non ho visto un solo campo coltivato. In effetti, essendo la gente nomade, non ha ragione di esistere. Ancora, le distanze sono decuplicate: è come muoversi da un posto all’altro dell’Europa in mulattiera. E poi per la vastità del territorio sono pochi i monumenti da vedere, anche perché, dove ci dovevano essere (tipo a Karakorum) sono stati quasi del tutto abbattuti da invidiosi conquistatori successivi. Quello che rimane, chiaramente, è spettacolare. Però, aldilà di tutto ciò che c’è da vedere (quest’anno abbiamo assistito ad uno spettacolo inviolato di vallate desertiche o verdeggianti, interrotte qua e là da un cavaliere o una carovana, di laghi vulcanici scintillanti e anche, lungo il confine settentrionale, di una vegetazione così rigogliosa e atipica per la Mongolia che sembrava veramente il Trentino; ma in effetti non so se il percorso è lo stesso ogni anno), ciò che veramente ha reso rivitalizzante quest’avventura è il confronto con quell’antica forma di semplicità e fierezza che i mongoli conservano ancora (ne è un esempio il Naadam, una ricorrenza in cui si fanno gare di lotta e di tiro con l’arco e corse di cavalli, che da noi sarebbe una misera festa popolare, li è il momento più alto di tutte le festività) soprattutto in confronto alla cultura occidentale. Ciò a prima vista può sembrare banale, abusato, ma non lo è se si considera che in una regione sterminata dove vive un solo abitante ogni chilometro quadrato, le persone devono essere sorridenti e ospitali, perché la natura è piuttosto avversa per tutti, è leale. E dopo un po’ che si vive con loro lo si avverte con chiarezza e un po’ di stupore (che esista veramente).
Al ritorno dal viaggio, poi, sarete colpiti dallo sguardo delle persone che vi conoscono, un po’ stupite di vedervi ancora interi (neanche foste tornati dalla guerra!) ma sinceramente interessate di sapere cosa avete visto, fatto e imparato, e non alla ricerca di souvenir di vario genere (cosa alquanto strana al giorno d’oggi). Mentre ero in viaggio, in televisione diedero un documentario proprio sulla Mongolia, e al mio ritorno ero molto sorpreso di vedere il salumiere e il barbiere (tra i tanti) così come parenti e amici farmi molte domande su quel posto stranissimo che avevano visto in TV (è come se avessero visto il documentario con più interesse per curiosità o, semplicemente, per apprensione).
In effetti sono pochi i luoghi dove sono stati veramente in pochi; la Mongolia è uno di questi e ciò le dà ancora un sapore di avventura, sia per chi va, che per chi, poi, ascolta. Un amico, dopo il mio racconto, mi ha risposto così: ”Beh, hai fatto un po’ di esperienza senza doverti arruolare nell’esercito!”.
Questo è il bello, alla fine si tratta solo di un viaggio, un viaggio che costa un po’ in più rispetto agli altri (ciò non toglie però che il prezzo in sé sia più che onesto), ma che, viste quante cose si imparano e quante belle persone si conoscono, è stata decisamente un’ottima idea.