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ITALIA: what else?

La mia esperienza in Svezia comincia il 27 Luglio, dopo 2 ore di aereo e altre 3 e mezza di pullman.
Quando finalmente sono arrivata a Norrkoping e ho conosciuto Anna, la mia host mum, mi sono resa conto che non avevo alcun motivo di essere agitata per quello che sarebbe stato il mio primo viaggio all’estero da sola: dal primo momento in cui mi ha vista si è rivelata disponibile e felice di ospitarmi.

 

Avrei passato quella settimana con un’altra ragazza, che sarebbe poi venuta nel mio stesso camp: Eriikka, una ragazza finlandese di due anni più grande di me, si è a sua volta rivelata una “sorella” meravigliosa, e, anche se il suo modo di fare da fredda finlandese era ben diverso dal mio di brava italiana, con il passare del tempo siamo diventate inseparabili.


Questa prima settimana è stata indimenticabile e pensavo che difficilmente il camp avrebbe potuto essere meglio: durante questa settimana abbiamo visitato città vicine alla nostra, abbiamo mangiato in ristoranti tipici nei quali tornerei mille volte solo per la gentilezza delle persone che ci lavoravano, abbiamo cantato in svedese fino a far piangere Anna dalle risate e abbiamo fatto camminate nella natura che difficilmente mi dimenticherò.
Sfortunatamente, la prima settimana finisce ed è ora di andare al camp. Io e Erica (l’ho sempre chiamata all’italiana perché il suo nome era lungo da pronunciare, ed ero l’unica a cui era permesso di farlo) eravamo allo stesso tempo cariche e già malinconiche nei confronti di Anna: ci dispiaceva lasciarla ma non vedevamo l’ora di divertirci con i nostri coetanei. Siamo state le seconde ad arrivare nella “villan”, la nostra casa per le seguenti settimane, e man mano che arrivavano cominciavamo a conoscere anche gli altri.

 

I primi giorni al camp sono stati i giorni più duri della mia esperienza: molti ragazzi si conoscevano già per aver passato la settimana precedente insieme e stavano tra di loro, tutti erano troppo timidi per passare la maggior parte del tempo con qualcuno che non conoscevano ancora bene e gli istruttori, per quanto ci provassero, non riuscivano a fare un granché. Ora, guardando indietro a quei giorni, mi rendo conto che è proprio grazie a quel piccolo arco di tempo che la mia esperienza è stata così fantastica: ho imparato a cavarmela relativamente da sola, ma ho anche imparato a fidarmi di persone sconosciute, che in quel momento mi hanno dimostrato di essere lì per me.
Passato il periodo buio, ha inizio l’esperienza che ha cambiato me, il mio modo di vedere, ma soprattutto la mia adolescenza.
Gli istruttori del camp ci portavano a visitare città, ci facevano fare canoa nell’arcipelago, ci permettevano di avere un po’ di tempo libero per chiamare casa o semplicemente rilassarci, ma bisogna anche dire che ci facevano pulire la casa, ci mandavano a letto alle 23 e ci svegliavano alle 7. Questi momenti che pensavamo essere negativi si sono rivelati i più divertenti di tutti, perché c’era sempre qualcuno che tirando l’aspirapolvere cantava e non si accorgeva che l’aspirapolvere era spento, oppure qualcuno che cadeva non appena avevamo lavato il pavimento, o che puntualmente si ritrovava chiuso fuori dalla casa perché era andato a fare un giro e si era lasciato scappare l’orario. Abbiamo imparato a convivere, a goderci ogni attimo fino all’ultimo secondo, ed eravamo sempre insieme, come 30 ragazzi che all’inizio sono solo ragazzi e alla fine sono 30 fratelli.

 

Sfortunatamente, 14 giorni sono passati più velocemente del previsto. E arriva la notte in cui sarebbe partito il primo minibus diretto ad Arlanda: e indovinate, quella è stata la parte più dura di tutte.
Alcuni ragazzi avevano il volo alla mattina, e a causa della lontananza del camp, il primo minibus è partito all’1.30 di notte. Inutile dire che abbiamo pianto come dei bambini, stavamo già perdendo 8 fratelli, e chissà se li avremmo rivisti…
In ogni caso, dopo la prima straziante partenza, io con i miei fratelli rimasti abbiamo dormito tutti insieme in sala, in attesa della partenza del secondo bus, alle 6.30. Ancora una volta, inutile dire che avremmo dovuto costruire una diga per non allagare la Svezia.
Non si può capire questa sensazione se non la si prova: io stessa in quei momenti avrei fatto di tutto per stare con loro un’altra settimana, non volevo tornare a casa, perché in quel momento la mia casa era quella.
Alle 8.30 io e altri sette ragazzi siamo partiti per prendere il treno che avrebbe portato me e un altro a Stoccolma dove i nostri genitori ci aspettavano, e gli altri all’aeroporto di Arlanda.
Durante il viaggio, chi sorrideva, sorrideva per ringraziare i Lions e il suo buonsenso di averlo fatto arrivare in quel camp, non di certo perché era contento di tornare a casa.
Una volta arrivati a Stoccolma, dove dovevo scendere, ricominciano le lacrime. Io ovviamente ero tra quelli che piangevano di più e potrei giurare che anche ora mi viene il magone a parlarne.
Stavo per salutare i miei fratelli, non li avrei rivisti il giorno dopo, e neanche la settimana dopo, ma io sono sicura che per il legame che si è creato, prima o poi ci ritroveremo tutti.

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