Cosa dire di tre settimane trascorse in Svezia in compagnia di ventiquattro ragazzi, più o meno coetanei?
Se poi dovessi aggiungere che erano tutti stranieri, provenienti un po’ da tutto i globo? Forse le parole non bastano a raccontare, né la lingua a rivivere momenti che ti cambiano dentro. Non era il primo viaggio da sola, né il primo soggiorno all’estero eppure era un salto nell’ignoto: sarei partita e per 21 giorni…cosa avrei fatto? Con chi? Dove? Questa esperienza non aveva nulla a che fare con la solite vacanze studio… ma io, ancora, non lo sapevo!
Scesa dall’aereo, mi viene incontro una signora, non esattamente la tipica svedese (bassa, robusta di costituzione e dai capelli castani). Questa è stata la prima cosa che ho imparato, cancellare ogni forma di pregiudizio o schema mentale, positivo o negativo che fosse. Credevo, o forse speravo, di non averne, ma nel mio inconscio avevo creato una serie di PROTOTIPI: gli svedesi sono alti, biondi, occhi azzurri, ricchi, precisi e corretti; i tedeschi sono seri e pignoli e via dicendo. Nulla di più sbagliato. Ho resettato completamente i file del mio cervello, creato la tabula rasa aristotelica o baconiana, insomma, per farla breve, ho rimesso in discussione veramente tanto di me stessa. Infatti, e qui ritorno al mio arrivo in Svezia, mi ritrovo in mezzo a sconosciuti che arrivano dalla Danimarca, dalla Francia, dall’ Austria, dalla Turchia e dall’Ungheria. E poi Canada, Texas, Kosovo, Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca, Polonia, Finlandia, Estonia, Olanda, Inghilterra, Belgio e perfino Israele.Parlare inglese era l’unico modo di capirsi,ma era difficile, faticoso, addirittura spesso, sfinente, sfibrante. Arrivavo alla sera esausta, mi sentivo impotente, non riuscivo a dire quello che volevo e non mi accontentavo di parlare del pranzo o del tempo. Avevo davanti a me un’occasione unica di confronto e un ostacolo mi impediva di raggiungerla: la lingua. Forse tanti fallimenti in azioni diplomatiche sono da cercare proprio nell’impossibilità di un dialogo aperto, alla pari, senza bisogno di intermediari che filtrino le parole.
Nonostante queste piccole difficoltà, con il senno di poi, mi ritengo soddisfatta di tutte le “banalità” che ho imparato. È incredibile quanto diverse possano essere le vite delle persone! Ho usato la parola “banalità” perché mi sono vista costretta a ripensare a ciò che per me era assoluta routine. Un insieme di gesti, parole, comportamenti dei quali non ti rendi conto, che dai per scontati perché comuni a tutti e che improvvisamente ti vengono a mancare. Il modo di rapportarsi, di parlare, perfino i saluti e i ringraziamenti sono diversi: quello che per noi è freddezza, è per altri accoglienza e viceversa. Mi sono trovata a dover essere una più attenta osservatrice per evitare di risultare maleducata o inopportuna.Ho cercato di cancellare ogni luogo comune sugli altri, ma spesso mi sono trovata ad esserne l’oggetto.Come mi stava stretta la “definizione” che attribuivano noi italiani! E quanto distante era dalla nostra realtà. Mi sono davvero resa conto di quanto sia difficile, per non dire impossibile e ingiusto, chiudere migliaia di persone, un popolo in una categoria!
Non sono state solo su argomenti leggeri le nostre discussioni. A volte ci trovavamo a parlare dei nostri paesi, di politica e di questioni etiche. La ragazza inglese, per esempio, ci ha raccontato il razzismo della sua città, ci ha descritto la fatica che faceva a scontrarsi quotidianamente contro un muro di incomprensioni.Con la ragazza texana abbiamo parlato della pena di morte, di cosa volesse dire per lei essere cittadina dello stato americano che ne fa più largo uso. È stato fantastico scoprire che non tutti i texani vogliono la pena di morte!Non mi sono mai sentita così spiazzata come quando il mio amico Dan, diciottenne da Israele, mi ha detto che sarebbe andato a combattere per tredici anni, TREDICI, per la sua patria. Quello che per me era normale: rifiutare la guerra e esserne terrorizzati, era per Dan il contrario. Era nato in un paese in guerra, i suoi genitori, i suoi nonni e suo fratello combattevano e avevano combattuto: non aveva paura, per lui era “normale” poter morire in guerra. Quando sei giovane, forse, ti senti un mito, hai l’idea e la voglia di cambiare il mondo, finché non ti scontri con la realtà. Come fai a spiegare ad un ragazzo che a diciotto anni decide di andare a combattere e mette in conto di morire per qualcosa in cui crede, o in cui gli fanno credere, che esiste un’altra realtà e , forse, altre soluzioni?
Non ho smesso di sperare,anzi. Sono diventata molto più consapevole e coerente, meno idealista, ma con tanta voglia di raccontare le esperienze che ho vissuto. Sono sicura di essere stata una privilegiata. Ho avuto un’occasione enorme per entrare in contatto con realtà tanto diverse, che hanno ridimensionato il mio punto di vista e le mie convinzioni. Questi 21 giorni non sono stati un semplice viaggio in Europa. Sono stati emozioni, sguardi, ricordi, sorrisi, colori, paesi diversi. Sono stati un tuffo nella diversità, nelle religioni, nelle culture …un tuffo nel mondo…nel nostro mondo!