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ITALIA: what else?

È una mattinata grigia a Malpensa. 
Un ragazzo trascina il suo trolley nei meandri dell’aeroporto, in attesa di imbarcarsi su un volo Turkish Airlines diretto alla Porta d’Oriente, l’indescrivibile Istanbul. 
Quel ragazzo sono io, e quasi tre ore dopo scendo dal mezzo, e in mezzo ad una marea di gente da tutto il mondo supero il controllo dei documenti e recupero il mio bagaglio. Varco una porta automatica e subito riconosco una responsabile dei Lions, illuminata nel suo gilet giallo. Dopo una breve chiacchierata mi accompagna nel luogo di incontro con la mia famiglia ospitante, dove conosco anche la responsabile del campo, che parla anche un po’ di italiano. Mi fanno sedere e attendo qualche minuto mentre davanti agli occhi mi scorrono ragazze e ragazzi di tutto il mondo, quando finalmente riconosco il volto del sedicenne che mi ha scritto qualche giorno prima. E presto mi ritrovo catapultato in una Istanbul afosa e trafficata, su un’auto guidata dalla mia nuova madre turca. 

La mia casa per i successivi dieci giorni è sulla sponda asiatica della città, in una zona collinare tranquilla ed esageratamente silenziosa. Io ed il mio nuovo fratello ci intendiamo subito: in 1700 chilometri i gusti dei ragazzi non cambiano ed è nel relax che passiamo la giornata successiva, a casa con alcuni amici del padre. 
Tutti si sforzano di comunicare con me, compresa la sorellina di nove anni, ed è meraviglioso ridere insieme delle differenze tra le nostre culture. Dal giorno dopo comincia la visita alla città e ai suoi dintorni. 
Che dire, non basterebbe un libro per renderle onore, figuriamoci un paio di pagine. L’atmosfera in ogni luogo, dai traghetti sul Bosforo alle moschee, dalle grandi piazze agli stretti vicoli, è sempre la stessa, sospesa in un’epoca indefinita, e anche in mezzo al traffico è facile immaginare mercanti asiatici ed europei che dall’impero romano ai giorni nostri si incontrano davanti ad un caffè. Già, un caffé turco. I turchi in cucina riflettono le particolarità del loro Paese: la varietà delle etnie, i colori delle tradizioni, il calore degli abitanti. 
Lo intuisco presto, ma me ne rendo davvero conto quando il mio nuovo fratello mi porta, attraversate un paio di strade tanto strette da impedire il passaggio di due uomini affiancati, in un vero kebap salon. Il tempo in famiglia scorre in fretta, tra gite fino al Mar Nero e serate al luna park, e arriva il giorno della mia partenza per il campus. I saluti non sono troppo tragici, sappiamo tutti benissimo che ci incontreremo presto, in Italia o in Turchia. 

Il campus altro non è che un bellissimo albergo poco lontano dalla casa, e comincio presto a conoscere i ragazzi di tutto il mondo che mi accompagneranno per un’altra settimana e mezza. Finlandia, Belgio, Messico… ci siamo tutti quando cominciano a dividerci nelle camere. Mi ritrovo con un inimitabile taiwanese ed un curioso slovacco, e indubbiamente eravamo i compagni di stanza più affiatati. Anche grazie allo staff, giovanissimo e vicino a noi, non c’e giorno di campus che io non ricordi come allegro e spensierato. Pomeriggi di giochi, partite a tavla (il backgammon, che tutti i turchi adorano), passeggiate in immensi parchi e partite di calcio improvvisate nel parcheggio dell’hotel, impossibile comprendere interamente un’esperienza così culturalmente arricchente senza averla vissuta. E naturalmente i saluti sono un po’ più lunghi, sarà difficile ritrovare un gruppo così affiatato. Ritorno a casa cresciuto, in tutti i sensi, con un po’ di turco di sopravvivenza e con tutto il necessario per il caffè turco che mi preparo tutte le mattine.

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