Salve, il mio nome è Mirko Trapletti.
Vivo con la mia famiglia in un paesino di 2200 abitanti chiamato Tavernola Bergamasca, situato sulla costa bergamasca del Lago d’Iseo. Ma, anche se per un breve periodo di tempo, sono stato “adottato” dalla città che è stata considerata per molti secoli la seconda Roma: Istanbul.
Appena atterrato all’aeroporto Ataturk, nella parte europea della città, sono stato accolto a braccia aperte dai figli della mia famiglia ospitante, özge e özgu. özge è una studentessa di 23 anni, studia Italiano all’Università di Istanbul e quindi si può facilmente capire come mi trovassi molto a mio agio a parlare con lei a proposito dell’Italia e della nostra cultura.
Özgu è uno studente di 16 anni, quest’anno è il suo terzo anno di liceo ed è un maestro per quanto riguarda la disciplina velistica, un vero fenomeno. I primi due giorni eravamo solo noi tre in casa poiché i genitori, özgur e Nur, erano ancora a Izmir in vacanza.
Özgur è un ingegnere meccanico di 58 anni, un uomo robusto a cui piace moltissimo scherzare con le persone che gli stanno attorno. Nur è una consulente commerciale di 51 anni, una donna con un bagaglio culturale veramente ampio e impressionante, cosa che si nota soprattutto dal suo inglese perfetto. La casa della famiglia öz si trova nella parte asiatica di Istanbul, precisamente nelle vicinanze del quartiere Fenerbahce. La prima sera, accompagnato dai miei nuovi fratelli, siamo andati in un bar per bere qualcosa e per farmi avere un primo impatto con la gente del posto. Ma soprattutto ho bevuto per la prima volta il caffè turco, il quale consiglio di berlo solo la mattina perché se lo si beve la sera o nel post-cena vi giuro, per esperienza, non dormite più. özge mi ha spiegato che in Turchia è un usanza molto popolare la caffeomanzia, cioè la predizione del futuro tramite la lettura dei sedimenti del caffè sul fondo della tazzina, poiché il caffè turco, a differenza di quello italiano, non viene filtrato da particolari macchinari come la mocca. Giunta l’ora di tornare a casa, ci siamo ritrovati imbottigliati nel traffico della città per un’ora e mezza. Nel mese di luglio è facile rimanere intrappolati nel traffico la sera poiché è il mese sacro del Ramadan. Per chi non lo sapesse il Ramadan è un periodo sacro per i musulmani (il 99% della popolazione di Istanbul è musulmana ma vige la tolleranza di culto), durante il quale non toccano cibo dall’alba al tramonto e quindi l’unico momento in cui possono dare libero sfogo alla loro fame è la sera.
Abitavamo al settimo e ottavo piano di un nuovo edificio ad un centinaio di metri dal mare. In quei giorni la temperatura superava sempre i 30 gradi ed il solo pensiero di fare 7 piani di scale mi aveva fatto venire la nausea la prima volta; per fortuna che c’era l’ascensore attrezzato anche di aria condizionata. Il giorno in cui andammo all’aeroporto a prendere i genitori, naturalmente guidava özge, uscimmo a cena in un ristorante, ovviamente pieno a causa del Ramadan, e provai uno dei tipici piatti locali: il pide, è una specie di variante del nostro calzone, a differenza del quale viene lasciato aperto e viene riempito con mille modi diversi: formaggio, salame, burro, verdure ecc. Il pomeriggio del giorno dopo, dopo essere venuti a sapere della mia grande passione per il calcio, mi hanno portato a visitare lo stadio del Fenerbahce, uno dei 3 principali club calcistici di Istanbul. Ma se ora dovessi continuare ad elencare tutto ciò che feci e che visitai nei miei 10 giorni in famiglia, penso che questo reportage si trasformerebbe in un lungo romanzo di avventure e sentimentalismi che troverei assai difficili da descrivere in qualche riga.
La mia esperienza in famiglia mi ha segnato veramente nel profondo, che ci si possa credere o no. Il giorno in cui partii per il camp, che si trovava nella parte asiatica di Istanbul a 2 ore di macchina dalla nostra casa, provavo tanta tristezza la quale, però, di fronte agli occhi degli öz, ho sempre mascherato dietro un sorriso spiegandogli che per me gli adii non esistono, è vero che passerà molto tempo prima del nostro prossimo incontro, ma gli continuavo sempre a ripetere “you know.. the world is small and now you have got a second home in Italy”.
Appena arrivato nel camp, l’impatto con i membri dello staff e gli altri campers è stato fantastico; tutti hanno fatto amicizia con tutti, senza alcuna discriminazione. Il mio compagno di stanza era uno studente finlandese di 18 anni e di nome Eetu. È un ragazzo molto pacifico e simpatico, ma anche lui sa scatenarsi parecchio, come è successo tutte le volte che abbiamo organizzato delle feste in cui si ballava e cantava tutti assieme. Il periodo del camp è stato indescrivibile sotto tutti gli aspetti.
Abbiamo fatto feste in spiaggia, in piscina, in discoteca, nella scuola del camp, in barca sul Bosforo e sul Mar Nero; abbiamo fatto shopping al Gran Balzar e in piazza Taksim; abbiamo visitato la Moschea Blu e l’Hagia Sofia; abbiamo fatto laboratori di disegno con l’acqua e di fotografia; abbiamo giocato a calcio, basket e a pallavolo ma soprattutto abbiamo riso e scherzato tutti assieme; 60 persone di nazioni diverse che per 11 giorni sono diventati amici, fratelli. Il giorno delle partenze, il 27 luglio, dannato quel giorno, è stato difficile quasi per chiunque nascondere le lacrime dal viso e un’immensa tristezza nel cuore. Ricordo con nostalgia l’ultima persona che ho abbracciato prima di salire sul pullman: Yagiz, il capo dei membri dello staff, per me il fratello maggiore che non ho mai avuto; gli ho regalato la mia maglietta preferita della Juventus facendogli promettere che un giorno sarebbe venuto in Italia e insieme saremmo andati a vedere una partita dei bianconeri.
Concludo consigliando, a chiunque leggerà questo reportage, di vivere un’esperienza del genere, di non essere scettici sulla città da cui si viene ospitati e, questo vale per quando si sarà giunti alla fine dell’esperienza, ricordate sempre: “don’t cry because it’s over, smile because it happened”.