Era una domanda che veniva posta molto spesso, e che riusciva a mettere in difficoltà quasi tutti. Generava silenzi imbarazzati, risposte banali e mai convincenti. Ma non con me, io sapevo cosa replicare al complicato quesito: “perché hai scelto proprio il Brasile?”
Volevo imparare il significato di una parola, ecco perché.
“Saudade”.
Un termine che non ha traduzione in italiano, né in nessun’altra lingua. Una parola che per essere compresa non può essere definita da un dizionario, deve essere vissuta. La saudade indica una forma di malinconia, affine alla nostalgia. Ma nessuno può capirne il vero significato finché non avrà occasione di vivere in mezzo al popolo brasiliano, di abbracciare quegli sconosciuti privi di formalità e pudori, di godere del loro fanciullesco entusiasmo e di rispondere ai loro inaspettati sorrisi di gioia generati anche solo dal vedervi.
Era la prima volta che scendevo nell’Emisfero Sud e nell’istante in cui ho messo piede a Porto Alegre ero consapevole di non essere mai stato così lontano da casa. E in effetti tutto è diverso, dall’altra parte del mondo. Non mi sto però riferendo alle differenze con l’Europa, bensì a quanto fosse diverso dall’immaginazione popolare che abbiamo del Brasile.
Così sono sceso dall’aereo in maniche corte, sottovalutando il rigido inverno del Rio Grande Do Sul, perché “in tutto il Brasile fa caldo”. Per fortuna che l’accoglienza così calorosa che mi aspettava è riuscita a scaldarmi immediatamente. E mentre attraversavo quasi tutta la regione più a Sud dello stato per raggiungere la cittadina dove avrei passato la prima metà della mia permanenza, avevo occasione di infrangere numerosi altri preconcetti che avevo sul Brasile, a partire dai paesaggi fino all’economia del paese. E così ho realizzato di come viaggiare mi faccia crescere e al contempo capire quanto piccolo io sia rispetto all’enormità del mondo che ancora devo esplorare.
Dopo ore di viaggio finalmente sono arrivato a “Serafina Corrêa”, cittadina di cui presto mi sarei innamorato.
Lì abita la giovane coppia che mi ha ospitato per più di due settimane, sposati e innamorati ma senza figli ufficiali, perché ospitando giovani attraverso gli Scambi sono diventati genitori di svariati ragazzi, tutti italiani. “Perché solo provenienti dall’Italia?” É una delle prime cose che ricordo di aver chiesto loro. Presto però la risposta mi sarebbe stata chiara, semplicemente guardandomi intorno mentre passeggiavamo per il paese. Bandiere italiane disegnate ovunque, monumenti dedicati al Bel Paese, ricostruzioni degli edifici che ci hanno reso celebri nel mondo, scritte in italiano sui cartelli. Ero capitato in una città che non amava semplicemente il popolo italiano, ne era ossessionata. Fondata infatti da immigrati italiani (prevalentemente veneti e lombardi) che con fatica e duro lavoro avevano trasformato quella terra brulla e disabitata in una fiorente economia a stampo europeo, aveva mantenuto con ossequioso rispetto le nostre tradizioni e tutt’ora la lingua italiana (o, più precisamente il “tallian”, più simile al dialetto veneto) è insegnata ai bambini. E così, quasi duecento anni dopo l’approdo dei primi italiani, la città era un capolavoro multietnico in una perfetta sintesi tra Europa e Sud America. E l’arrivo di un vero italiano, che parlava con fluidità quella lingua così bella da ascoltare, per tutti loro era un evento che li metteva in fibrillazione. Al mio primo ingresso in città ero già conosciuto da tutti, visto che la notizia del mio arrivo era già da tempo circolata tra i quindicimila abitanti di Serafina, e per quelle due meravigliose settimane ho potuto godere dei vantaggi di una celebrità assolutamente immeritata, tra cerimonie, discorsi e riconoscimenti che mi hanno fatto sentire orgoglioso di essere italiano più che mai.
Intanto la mia host family si è assicurata che io assaporassi e mi immergessi in profondità nella cultura gaucha (ossia dello stato “Rio Grande do Sul”) tra cibo squisito, ottimo vino, sfide a calcio, sagre popolari e un’indimenticabile esperienza all’Arena du Grêmio, ad assistere una partita che mi ha emozionato come mai il calcio italiano era riuscito.
Ho iniziato a sentire i loro tamburi e le trombe prima ancora di riuscire a scorgere lo stadio all’orizzonte. La partita è iniziata e i tifosi hanno cominciato a cantare. E non hanno più smesso. Nemmeno quando la squadra avversaria ha pareggiato. Nemmeno quando l’arbitro ha negato un rigore palese a pochi minuti dalla fine. Nemmeno quando ormai le speranze di vincere erano quasi del tutto svanite. No, loro hanno alzato la voce per chiedere agli Heróis tricolores un ultimo sforzo, un ultimo tentativo. E mentre l’arbitro già aveva il fischietto in bocca per decretare il termine della partita, il loro amore per il calcio e per il Grmio è stato ripagato. Un dribbling di quelli che hanno reso famoso il calcio brasiliano nel mondo, cross in mezzo, mischia in area, la rete si gonfia, lo stadio esplode. Non scorderò mai quel boato. Fino a pochi giorni prima non sapevo nemmeno quali fossero i colori del Grêmio, quel giorno ero sull'orlo delle lacrime in mezzo all'abbraccio di sconosciuti che esultavano con parole che non capivo.
Purtroppo però, un triste giorno mi sono dovuto rendere conto che il mio tempo a Serafina Corrêa era finito. Avevo amato il loro cibo così gustoso, il loro vino così intenso, le loro donne così esotiche e affascinanti, la loro capacità di fare festa ad ogni occasione.
Ma la mia avventura in Sud America non era finita, era all’inizio di un altro capitolo: il Lions Camp.
Cinquanta giovani provenienti da ogni parte del mondo riuniti sotto lo stesso tetto. Inutile anticipare quanto sia stato esaltate il tempo passato con loro. Tra tutti loro però i legami più forti li ho stretti con gli altri cinque italiani presenti, compagni di follie e atti patriottici che ci mettevano spesso al centro dell’attenzione per un’esuberanza che è diventata caratteristica principale del nostro piccolo sottogruppo. Il campo è trascorso così tra spedizioni per ammirare le meraviglie naturali locali, come le famose Cascate Caracol, e feste tipicamente brasiliane, il tutto in un clima interculturale che generava davvero speranza durante i momenti drammatici che il mondo stava vivendo in quel periodo.
Difficilmente scorderò la passione che sapeva suscitare il popolo brasiliano, che trovava un momento per ballare in ogni occasione, che sapeva divertirsi e far divertire. Me lo dissero appena arrivato: “di posti belli da vedere ne abbiamo pochi, sono le persone che lasceranno il segno più profondo su di te, il ricordo più vivido.”
E così è stato.
Un viaggio che mi ha mostrato l’immigrazione da un altro punto di vista, che mi ha reso più cosmopolita rafforzando al contempo la mia identità nazionale. Il mio sguardo sul mondo non sarà più lo stesso, ma soprattutto, ho capito che cos’è la saudade. Solo ora, mentre ricordo con affetto e nostalgia il tempo trascorso in Brasile posso provare la suadade nella sua completezza.
E posso dire che ne è valsa la pena.