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ITALIA: what else?

Un viaggio è un breve percorso che inizia e finisce a casa e ci sono alcune tappe che la contraddistinguono:
La prima è l’attesa che precede la partenza che si concretizza nella preparazione fisica ad affrontare il viaggio con l’acquisto dei biglietti per arrivare a destinazione o con il confezionamento dei bagagli e la richiesta dei documenti ma anche e soprattutto nella preparazione mentale che precede un periodo di cambiamento, se pur temporaneo. Ciò significa anche prepararsi a lasciare alle spalle la routine e “mettere in pausa” la vita a casa per vivere qualcosa di diverso altrove e così immaginarsi “come sarà” e definire nella mente delle aspettative. Ciò significa velatamente darsi un obiettivo, cosa che da subito permette di affrontare attivamente e non passivamente quello che l’esperienza ci regalerà.

La seconda è il viaggio stesso, cioè ogni minuto di quello strano percorso che da casa ci riporta a casa. Non è possibile immaginarselo a priori, il viaggio va vissuto a pieno dando il 100%. L’atteggiamento attivo e propositivo nei confronti di tutto quello che ci si pone davanti è lo stato d’animo che più porta il viaggiatore a tornare a casa con qualcosa, cioè con il ricordo di momenti vivi nella loro interezza, immagini, suoni, sensazioni ed emozioni belli e brutti ma tutti forti e pieni.
L’ultima parte è la più complicata perché è costituita dal rientro a casa, lì da dove si è partiti con la spinta a fare il resoconto dei giorni passati lontano. Foto, video e souvenir rimarranno sempre nella nostra casa per ricordo, simbolicamente legati a un momento di vita in un posto diverso. Ma vale la pena fare un viaggio solo per questo? In realtà essersi posti con animo positivo rispetto a ciò che ci circondava, ci fa tornare a casa con qualcosa di grande, arricchiti di momenti importabti, conoscenze, consapevolezze, esperienze e legami. 
Così non sarà brutto il viaggio in cui, tornati a casa, avremo tra le mani cose diverse da quelle che avevamo preventivato, perché comunque ne sarà valsa la pena. 
Il viaggio deludente è quello in cui, rientrati a casa, saremo le stesse persone di prima, perché non avremo vissuto l’esperienza a pieno.
Mi piace approcciare così a posteriori il mio soggiorno in Cina, tenutosi dal 30 luglio fino al 20 agosto grazie al programma Lions Exchange. 
Il viaggio si è suddiviso in una prima settimana trascorsa in famiglia, una seconda in camp con gli altri ragazzi in scambio come me e l’ultima passata nuovamente in famiglia. Non è facile riassumere in poche righe tre settimane così intense anche perché ogni foto e ogni video mi ricordano luoghi, persone e posti unici. 
Mi scuserete se chiamerò la nota “Pechino” con il suo vero nome, “Beijing”.Onestamente non credo che tutti gli europei (eravamo nove in tutto) possano affermare la stessa cosa, ma io credo di aver incontrato una famiglia magnifica. 
Qi il padre, Lily la madre, entrambi Lions, e la figlia diciottenne Claire parlavano tutti correttamente inglese, la piccola Kimi logicamente no, ma si sa che con i bambini può non risultare un ostacolo quello della lingua! Poter comunicare in un ambiente così lontano da casa è fondamentale e forse di questo mi sono resa conto solamente nella seconda settimana in camp dove mi sono trovata difronte a grandi difficoltà, di cui vi parlerò più avanti. Con la mia famiglia il soggiorno è stato molto bello. Inizialmente dovevo passare con lei solo la prima settimana ma poi ho finito con il trascorrervi anche la terza perché la famiglia che originariamente mi doveva accogliere non ha più potuto ospitarmi.
Ho trovato persone molto aperte al mondo occidentale quanto legate alla tradizione cinese, persone sensibili che mi hanno accolta nel migliore dei modi, non solo perché hanno dato il meglio che potevano offrirmi in termini di ospitalità, sistemazione ed organizzazione delle giornate, ma anche perché hanno avuto delle accortezze nei miei confronti che mi hanno permesso di superare con facilità il primo impatto con una cultura ed uno stile di vita così diversi dai miei/nostri.
Per prima cosa penso ai loro nomi: i cinesi hanno nomi cinesi scritti con caratteri cinesi e pronunciati con composizioni di suoni molto complicati da ascoltare e riprodurre per me perché non presenti nella lingua italiana. Per questo motivo tutti in famiglia avevano un secondo nome occidentale, in modo che io potessi chiamarli senza problemi. Solamente il padre ha mantenuto, su mia richiesta, il suo nome cinese parchè volevo impararlo per mettermi alla prova.
In famiglia non mi hanno mai fatto mancare una forchetta a tavola, anche se io l’ho usata solo una volta in tre settimane, perché in viaggio tendo a voler vivere veramente a pieno la vita di un paese. Nella scelta del cibo mi interpellavano sempre, per quanto io preferissi far ordinare a loro i piatti più tradizionali cinesi e di culture culinarie diverse come quelli tailandesi, coreani e giapponesi. A colazione, oltre alla colazione tipica di Beijing, fondamentalmente salata e composta da una grande varietà di cibi, molti dei quali a base di riso o fagioli, spesso facevano trovare qualcosa di dolce non appartenente alla loro tradizione ma che pure loro, talvolta, acquistano. 
Il fatto che la colazione italiana sia tradizionalmente dolce, pur parlando di Europa, li ha in un certo senso stupiti perché anche se sono stati in Italia non si erano resi conto di questo.
Con Claire trascorrevo intere giornate. La prima settimana io, lei, Leonardo, che come me veniva dall’Italia, e i due ragazzi di casa sua, Antonio e Miriam, abbiamo visitato tutti i luoghi della lista che, mentre ancora ero in Italia, avevo mandato per email a Qi, ovviamente perché lui stesso mi aveva chiesto cosa potesse interessarmi. Sono stati davvero carini a soddisfare tutte le mie richieste, che includevano le principali attrazioni storiche, o almeno quello che è rimasto, perché molti edifici sono andati distrutti a causa della deperibilità dei materiali tradizionali, principalmente il legno, ma anche perché dall’Ottocento le trasformazioni della città non hanno favorito la conservazione del patrimonio edilizio antico.
Essendo di mio interesse abbiamo visitato anche alcuni edifici più moderni come lo Stadio Olimpico, Il Museo Nazionale, il Teatro Nazionale e due edifici multifunzionali di Zaha Hadid, architetto di fama mondiale recentemente scomparsa.
Ho adorato il cibo e ho imparato ad usare le bacchette osservando che con due bastoncini è possibile veramente fare l’impensabile. Ho voluto provare tutto quello che mi è stato possibile, ho assaggiato cibi particolari, come per esempio due volte la medusa che è stata davvero una scoperta…..insomma un bel tuffo in una cultura molto diversa!!
Alla sera spesso Lily rimaneva con me e Claire per conversare: questi sono stati davvero dei bei momenti di scambio in cui ci siamo tanto tanto confrontate. Abbiamo parlato del sistema scolastico, delle differenze culturali all’interno della stessa Cina, delle abitudini delle persone in città e in campagna e delle usanze. 
Ho partecipato a bei momenti della loro vita famigliare e ho conosciuto gli zii ed i nonni, che addirittura da un loro viaggio di qualche giorno mi hanno portato uno scialle ricamato a mano. L’altra nonna, la madre di Qi, gli ultimi giorni della mia permanenza a Beijing, è invece stata con me un intero pomeriggio per spiegarmi come si fanno i dumplings, cioè i ravioli, dalla pasta esterna al condimento interno. Infatti durante il camp avevamo provato a farli ma la pasta ed il ripieno di fatto erano già stati preparati e quindi ci eravamo limitati a mettere il ripieno al centro dei dischi di pasta e a chiudere i ravioli con il metodo insegnatoci.
Anche nella mia terza settimana a Beijing, come detto, sono stata ospite di Claire e della sua famiglia e di questo sono stata molto felice.
In questa settimana, su mia richiesta, abbiamo preferito vivere una “routine ordinaria”,visitando i luoghi della città che solitamente la “mia famiglia” frequenta per mangiare, per passeggiare o per fare shopping. 
Beijing è costellata di grandi centri commerciali polifunzionali che non si limitano ad ospitare negozi ma anche ristoranti, cinema dove la programmazione delle sale è prevalentemente in 3D e centri benessere. Ma accanto a questi esistono ancora, nel centro della città, i supermercati di quartiere, molto piccoli e tipici, e così si ripresenta spesso il contrasto tra quello che è più locale e quello che è più “moderno”. 
A Beijing ho imparato che tutto può essere acquistato online e spedito a casa, anche un tè e senza aggiunta di spese di spedizione, e che in quanto a tecnologia, hardware e software, in CIna sono molto avanti. Ho capito che c’è una grande distinzione tra chi vive nelle grandi città come Beijing e chi vive le campagne e che non tutti hanno le stesse possibilità o lo stesso interesse nello studio. 
Ho provando a fare mente locale su quello che della cultura cinese avevo capito, dopo aver visto la città e i musei, ma in un primo momento sono rimasta molto confusa. Parlandone con la mia famiglia mi sono resa conto che è molto difficile trovare qualcosa tradizionalmente legato a tutte le parti della Cina (l’esempio più semplice è il cibo), ed ho iniziato a comprendere la vastità di questo paese e la quantità di persone che lo abitano! 
La prima cosa che mi ha stupita è la scala con cui sono pensati i luoghi della città, una scala urbana pronta ad accogliere moltissime persone che vivono in Beijing, ma anche tutti i turisti che dalla Cina stessa si recano in periodo estivo a visitare la capitale, gli stessi turisti che, a differenza di chi vive nelle grandi città ormai globalizzate, rimangono stupiti nel vedere persone occidentali e che non si fanno problemi nel chiedere se possono scattare una foto con te!
Sono stata accompagnata al cinema, a un concerto al Teatro Nazionale e anche a uno spettacolo al “Water Cube” che fa parte del complesso olimpico.
Sono veramente felice di aver conosciuto queste persone e ho avuto la percezione che anche loro abbiano apprezzato la mia presenza ed amicizia. Ci sentiamo ancora e ci mandiamo foto dei momenti insieme.Quella vissuta durante la seconda settimana è stata un’esperienza molto particolare.. Alloggiavamo infatt ll’orfanotrofio di Qinghuangdao, una modesta struttura in cui vivono bambini e ragazzini che non hanno la possibilità di vivere con i genitori, in modo che gli siano garantiti un tetto, cibo, vestiti e un minimo di istruzione.
Per arrivare in questa città a circa quatto ore da Beijing, abbiamo fatto tappa una notte in un’area di campeggio, e qui a mio avviso sono iniziati i primi problemi di comunicazione con il “Camp leader”, una donna molto energica, e gli assistenti di cui solo due conoscevano l’inglese. 
Il camp, che doveva essere in inglese, per l’intera settimana è stato in cinese perché gli organizzatori erano Lions cinesi e molti partecipanti erano ragazzi cinesi e taiwanesi. Non riuscire a capire i discorsi, dover sempre chiedere a qualcuno dei ragazzi, che come noi erano al camp, di tradurre dal cinese all’inglese è stato un po’ pesante. Una prova di questa barriera è che da subito tutti hanno iniziato a parlare di “European Team” riferendosi a noi 9 ragazzi europei, proprio perché per limiti di comunicazione finivamo per stare spesso insieme. Eravamo quattro italiani, un francese, due olandesi e due tedeschi e ancora oggi ci sentiamo e siamo in contatto. 
Le attività che abbiamo fatto durante questa settimana in parte sono state interessanti, ma la maggior parte, a mio avviso, dovevano essere pensate meglio: la mancanza più grande è stata sicuramente quella di non coinvolgere i bambini dell’orfanotrofio nelle nostre attività. 
Ho trovato questa scelta pessima: perché stare in un orfanotrofio se non sono state programmate attività da svolgere con i bambini? Per questo autonomamente, noi europei, nonostante il problema della lingua, ci siamo spesso fatti avanti e abbiamo giocato e scherzato con loro.
Personalmente ho cercato di capire di più della loro vita nella struttura e come ho chiesto informazioni, quando possibile ho cercato di vivere alcun loro momenti come il tai chi delle 6.00 del mattino, l’ingresso in mensa con la promessa di consumare il pasto in silenzio e senza sprechi o qualche momento in classe la mattina. 
La cosa che mi ha fatto più tenerezza è stata apprendere che se avevamo dei posti letto era perché delle bambine si erano trasferite in altre camere per tutta la durata della nostra permanenza. L’ho capito perché ho trovato sotto il mio letto dei quaderni, dei colori, qualche gioco e dei vestiti impacchettati. Ciò significa che se le stanze avevano quattro letti a castello (e solo uno spazio centrale per accedere ai letti), e se ogni stanza ospitava normalmente otto persone, loro hanno dormito in 16 in una stanza, con un caldo umido incredibile e tutto questo per noi! 
Le attività che ho gradito di meno sono state una lezione di teatro, perché ciascuno doveva far riferimento a specificità della cultura cinese che non conoscevamo, oltre alla lingua cinese, e la giornata trascorsa ad un acqua-park che univa spiaggia, piscine e giochi: a mio avviso uno sbagliato investimento di risorse. 
Ero partita con l’idea di conoscere l’orfanotrofio e stare con i bambini: sicuramente non ero dello spirito di andare a divertirmi in un parco giochi al mare senza che nemmeno i bambini fossero con noi! Inoltre nessuno ci aveva avvisati e dunque solo pochi avevano costumi da bagno! 
Altri momenti sono stati molto belli come una giornata in cui insieme a degli operai abbiamo risistemato la vecchia casa della nonna di una orfana dell’istituto, per quanto ci siamo andati due volte, di cui la prima a vedere cosa fosse necessario ma totalmente inutile. Infatti alla presa visione, una volta tornati dopo 2 ore di autobus, avrebbe dovuto seguire un dibattito tra noi partecipanti al camp su quali fossero le cose più urgenti per la casa: il dibattito non è mai avvenuto, quindi a mio avviso è stato inutile andare la prima delle due volte. Queste escursioni ci hanno dato modo di vedere la campagna e la vita, molto diversa da quella in città, che molte persone conducono. Il paesaggio immerso nel verde era molto bello e in queste due escursioni ho avuto modo di vedere per la prima volta un cielo nettamente più azzurro., ma mai come quello italiano. 
Una giornata siamo andati a vedere la parte della Grande Muraglia che si affaccia sul mare, e nonostante la folla è stata una giornata bella. 
Altra attività è stata quella di insegnarci a fare i dumplings, cioè i ravioli cinesi che abbiamo fatto tutti insieme per poi cenare. 
Complessivamente la settimana in orfanotrofio mi ha lasciato tanto, ma credo che un prossimo anno, se ascoltassero i consigli che gli organizzatori stessi ci hanno chiesto, potrà essere ancora più efficace. Vedere una Beijing non significa vedere la Cina, e forse grazie a questa settimana ora capisco meglio cosa c’è fuori dalle grandi città, dove le persone non sono affatto abituate a vedere turisti, autobus pieni di ragazzi e soprattutto volti occidentali. A chi fosse indeciso sull’affrontare il camp dico: la struttura è povera e le condizioni di vita abbastanza disagiate, ma 6 giorni sono un’’esperienza da fare! In fondo, c’è chi ci vive venti anni, 6 giorni non sono nulla! 
L’ultima sera del camp l’abbiamo trascorsa in una struttura nei pressi di Beijing: era stata organizzata una cena attorno ad un falò con tutti i Lions del distretto e il vicepresidente distrettuale Lions.
Spero con le mie parole di aver trasmesso l’entusiasmo con cui sono tornata da questo viaggio. Mi sono portata a casa molto più di quanto credessi, momenti intensi, ricordi e rapporti bellissimi del tutto imprevisti.
Mi porterò nel cuore questa esperienza che sono convinta abbia lasciato in me un forte segno.