Ho visitato un paese stupefacente, e ogni giorno mi sono svegliata con il sorriso. Ho trovato una seconda famiglia e moltissimi nuovi amici, ho visto paesaggi mozzafiato e soprattutto ho realizzato il mio sogno, ovvero visitare questa nazione che mi era sempre sembrata una meta irraggiungibile poiché lontanissima.
Il giorno della partenza ero tranquilla, ma solo perché non sapevo cosa mi aspettasse. Per fortuna ho dovuto fare solo scalo a Francoforte ma per me che non ho mai viaggiato da sola, anche quella è stata un’avventura. Il secondo volo è durato nove ore e mezza, una vera e propria odissea. Appena sono scesa però il gentilissimo personale di terra, con tanto di cappello da cowboy, mi ha saputo dare una mano per giungere al ritiro bagagli. Questa frase contiene le due parole più significative del mio viaggio: gentilezza e cowboy, ma probabilmente saprò spiegarmi meglio in seguito. Ho riconosciuto subito la mia host family grazie alle foto che mi avevano inviato per mail; all’aeroporto ho conosciuto anche il responsabile del camp a cui avrei partecipato, Tony Prettegiani, e alcune ragazze provenienti da vari paesi. Tim e Gail mi hanno parlato di come in quei giorni ci fosse lo “Stampede”, ovvero un gigantesco festival che si svolge ogni anno a Calgary, o come preferiscono chiamarlo loro “The greatest outdoor show on earth”. Prima pensavo che in Canada ci fossero solo boscaioli ma mi sono dovuta ricredere, dato che nel Sud dell’Alberta si sentono tutti, profondamente, dei cowboy.
In auto il paesaggio mi sembrava surreale: le autostrade non avevano il pedaggio e nemmeno dei guard rail, la zona di Calgary è piatta quindi ci si poteva guardare intorno per chilometri e il cielo sembra sconfinato a causa della totale mancanza di condomini e palazzi (presenti solo nel centro della città). Tutti vivono in piccole villette, perfino le coppie senza figli come quella dei miei host genitori, le uniche cose che si possono trovare fuori dal nucleo di Calgary a parte qualche sporadico supermarket.
Dopo aver pranzato in una steak house siamo finalmente giunti a casa, in mezzo a una tempesta di grandine. Lì ho fatto la conoscenza di Kayla, il cane di casa, un pigrissimo e affettuosissimo labrador. Tim è stato fantastico e ha cercato subito di farmi sentire a mio agio parlandomi per ore e cercando di sapere qualcosa su di me.
Il giorno dopo ho fatto la mia prima colazione “classicamente canadese” con pancake allo sciroppo d’acero, di cui penso di essere diventata dipendente. Non sono molti i piatti tipici di questa parte del Canada, famosa però per la sua carne (in Alberta si trova il 40% dei bovini del Canada). La mia prima settimana ho visitato il Nordic Centre di Canmore, ovvero parte del parco olimpico del 1988 con la mia host family. Ben presto ho fatto la conoscenza di altri ragazzi ospitati da famiglie canadesi, con cui sono andata a fare shopping e a compiere un’avventurosa gita in montagna, guidati (letteralmente, dato che la patente si può prendere a 16 anni) da un ragazzo canadese della mia età, che aveva partecipato in passato a uno scambio Lions. Il giorno in cui ho visitato lo Stampede minacciava pioggia, e mi ero messa quattro o cinque strati di vestiti perché il tempo cambia molto velocemente. Sono rimasta sbalordita dalla quantità di cose che si potevano fare: c’erano numerosissime bancarelle, all’aperto per mangiare (perlopiù qualsiasi cosa potete immaginare veniva fritta e servita), giocare al tiro a segno, mentre all’interno c’erano vari venditori ed esposizioni più serie, di artisti che vendevano i loro capolavori sul posto. Di pomeriggio molti show erano disponibili, fra cui il rodeo, la corsa dei cani, una competizione acrobatica di motociclette e motoslitte (che ho adorato), e vari spettacoli organizzati in ogni punto della fiera, che variavano dall’ipnosi ai concerti. La sera sono andata con Tim e Gail a vedere la corsa dei carri; dimenticate Ben Hur, qua si parla di carri (forse sarebbe meglio dire calessi?) trainati da quattro cavalli e al vincitore vanno soldi e una discreta celebrità. In seguito abbiamo assistito a un musical e ai fuochi d’artificio, il tutto miracolosamente senza nemmeno una goccia di pioggia. In Canada, comunque, la pioggia non è un grande problema: gli abitanti vi sono così abituati che di solito nemmeno aprono l’ombrello (a meno che non stia davvero diluviando).
Gail, la mia host madre, purtroppo era tutto il giorno al lavoro ed inoltre quest’anno è la governatrice del Sud Alberta per i Lions locali, quindi era spesso molto impegnata. Tim lavorava da casa ma anche lui occupava una posizione di rilievo nel Lions club, ed era stato presidente del club di Cochrane (un paese vicino a Calgary) per molti anni. Di solito dopo un po’ di lavoro si dedicava completamente a cercare di farmi divertire, anche quando restavamo a casa, parlandomi, guardando un film con me o cercando di cucinare il pranzo (sebbene da quanto ho capito spesso di suo fosse abituato a saltarlo).
Sono tornata allo Stampede qualche giorno dopo, con i ragazzi dello scambio con cui ormai avevo un fantastico rapporto (Provenienti da Israele, Francia, Danimarca, Olanda e un altro italiano). La cosa che mi ha stupito di più è stato girare in zone che ignoravo esistessero e capire che le cose da vedere erano praticamente infinite: tra gare di battitori d’asta, gare di ferratura di cavalli e gare di danze di nativi ho capito anche che i canadesi sembrano molto tranquilli ma sono anche molto competitivi. Devo ammettere che scesa dal treno ho rischiato di perdermi ma per fortuna la casa della mia famiglia era su una collina, quindi in qualche modo sono riuscita a ritrovarla. Ogni giorno, proprio grazie a questa particolarità di un paesaggio generalmente piatto, mi godevo una stupenda vista delle montagne che circondano la città.
Tim un giorno ha avuto la geniale idea di invitare gli altri ragazzi per un party nella vasca idromassaggio di casa e sebbene devo dire stavamo un po’ strettini, è stato stupendo passare la domenica pomeriggio con loro. Qualche volta mi chiedevano se sentissi la mancanza di casa e dovevo ammettere di non stare troppo male, sebbene fosse passata una settimana: per prima cosa, nonostante le otto ore di scarto nel fuso orario canadese riuscivo comunque a scrivere ai miei amici e poi mi sentivo totalmente accettata e a casa da Tim e Gail grazie all’affetto e alla fiducia che mi avevano dimostrato fin dal primo giorno.
La seconda settimana sono andata con i ragazzi a un centro pieno di tappetini elastici: non so bene se esistano anche in Italia ma è una specie di paradiso (sebbene un pochino pericoloso). Uno dei miei giorni preferiti è stato quello in cui abbiamo visitato Canmore e Banff (una riserva naturale, ricca di viste mozzafiato) ma soprattutto mi sono ritrovata ospite a una cena del Lions club di Cochrane, un gruppo esclusivamente maschile e perciò mi sono sentita molto onorata per l’invito e le spille che mi hanno regalato. Avevano persino inserito la mia visita nell’Odg della riunione! Dopo cena ho girato per la città con Gail...sebbene sia stata fondata solo nell’Ottocento parlava delle sue origini come se fossero molto antiche, il che mi ha fatto pensare al leggero carico di storia di questo paese così giovane. Dopo un gelato (gusto “bacon e sciroppo d’acero” che non aveva niente da invidiare ai nostri gelati), e un tramonto spettacolare siamo tornate a casa...non so come descrivere quanto fossi felice e soddisfatta in quel momento. Il giorno seguente io e gli altri ragazzi ci siamo avventurati da soli per Downtown Calgary, sebbene non avessimo la più pallida idea di dove andare. Dopo un giro a Chinatown e per dei negozietti dall’aria vagamente trascurata abbiamo trovato una delle vie principali per i turisti e dopo essere entrati in un Hmv a lato della strada ci siamo ritrovati dentro a un centro commerciale. Uno dei ragazzi voleva assolutamente trovare un piccolo pianoforte montato come installazione in un piazzetta, quindi siamo dovuti resistere al caldo e dare la caccia allo strumento dopo essere tornati all’aperto. La musica è davvero qualcosa che ci unisce tutti, e supera qualsiasi confine; ci siamo ritrovati a suonare pezzi insieme noncuranti della gente che passando ci credeva mezzi matti.
Ho adorato anche la gita a Drumheller, ovvero la città dei dinosauri. La zona in cui è situata si chiama “Badlands” a causa del paesaggio spoglio e brullo; viene un po’ considerata il deserto dell’Alberta. Confesso che di fronte alla prima valle del genere su cui ci siamo affacciati da un’altura mi pareva di essere sulla luna; mi sono molto emozionata e innamorata subito di questo habitat. Nell’area sono stati ritrovati numerossissimi scheletri di dinosauri conservati in ottime condizioni, tanto che è stata creata una cittadina che ruota interamente intorno al turismo portato da questa attrattiva, in particolare da un enorme museo a tema che abbiamo visitato in un paio d’ore, pieno di pezzi originali e di copie di scheletri enormi. L’ultimo giorno prima della nostra partenza per il camp siamo andati a fare del volontariato in un centro di riciclo di occhiali usati gestito dai Lions, divertendoci come matti provando delle lenti che parevano fondi di bottiglia. La sera abbiamo conosciuto numerosi membri del Lions Club a una cena; sono stati tutti molto gentili con noi ragazzi dello scambio ma purtroppo ci avevano riservato un tavolo a parte e non abbiamo potuto parlarci molto a lungo.
La terza settimana ho trascorso cinque giorni al Waterton Leadership and Community Building camp, forse l’esperienza cardine del mio soggiorno. Eravamo una quarantina di ragazzi, equamente divisi in canadesi e “stranieri” che venivano da qualsiasi nazione (Brasile, Messico, Turchia, Germania, Finlandia, Francia, Danimarca, Israele…), sebbene ci fosse una netta maggioranza di ragazze rispetto ai maschi. Eravamo alloggiati in cabin, ovvero piccole casette attrezzate con brandine. Per fortuna avevo portato il mio sacco a pelo! Sul pullman ho cominciato subito a conoscere nuovi ragazzi, cosa che è continuata poi grazie ad alcuni giochi di aggregazione che abbiamo svolto (sebbene stanchi morti) appena arrivati, dopo tre ore di pullman. L’obiettivo principale dei responsabili del camp era di farci interagire tra di noi il più possibile, per conoscerci e uscire dal nostro guscio. Ogni giornata era organizzata all’incirca allo stesso modo: la mattina seguivamo delle lezioni su come essere dei buoni leader, poi seguiva il pranzo e del tempo libero prima delle attività del pomeriggio (giochi, gite a cavallo o a piedi); la sera cenavamo abbastanza presto, poi discutevamo in gruppi su dei problemi di attualità e dopo ci godevamo qualche snack nella sala comune. La giornata si concludeva intorno al falò, con giochi e canzoni, sotto un cielo mozzafiato. La paura degli orsi ha caratterizzato questi cinque giorni di follia e divertimento, così come la corsa per arrivare prime alle docce delle ragazze e non avere quindi l’acqua fredda, o gli infiniti turni passati a lavare piatti e posate. Per fortuna i nostri contatti con la fauna locale si sono limitati ad avvistamenti da distanze di sicurezza o strani graffi uditi dalla cabin accanto alla nostra l’ultima notte prima del ritorno a casa. Il cibo era servito in quantità esagerate, e a me toccava sempre finire tutto poiché sembrava che fossi l’unica a preoccuparsi di dove andassero a finire tutti quegli scarti. La sera in cui io e Francesco (il ragazzo italiano) abbiamo dovuto parlare dell’Italia di fronte a tutti eravamo molto in ansia, ma anche orgogliosi di rappresentare il nostro paese e di doverne parlare in modo tale da far capire quanto lo amassimo entrambi. L’ultimo giorno abbiamo attraversato Lake Waterton su un battello, passando il confine Canada-Stati Uniti e quindi rimanendo negli USA per circa un’oretta, giusto il tempo di timbrare il passaporto al posto di blocco sulla riva opposta e tornare indietro. A cena siamo andati in un fienile adattato a ristorante a conduzione familiare, e i proprietari del locale ci hanno offerto un concerto di musica country davvero delizioso. Per sfiancarci una volta per tutte dopo la musica i leader ci hanno portato nella parte alta del fienile a ballare fino a tarda notte; a quel punto eravamo mezzi morti e ci hanno caricato sul pullman per tornare al camp. Il giorno della partenza è stato il più triste; piangevamo tutti sapendo che non ci saremmo mai potuti riunire tutti nelle stesse condizioni per riavere quel divertimento e quel legame speciale che sentivamo tra noi; oltre alle lacrime ci siamo scambiati le promesse di tenerci in contatto. Per fortuna molti ragazzi vivevano a Calgary o avevano le loro host family nella stessa città, quindi sapevo che avrei potuto rivederli negli ultimi giorni che mi rimanevano. Appena scesa dal pullman Tim e Gail come regalo mi hanno portato in un negozietto di cibo italiano, in cui mi sono sentita a casa, e a mangiare nel ristorante “Il Chianti” in cui, dopo aver ricevuto il compito di ordinare i loro piatti in italiano, la cameriera ha riconosciuto la mia nazionalità. In Canada vanno davvero matti per l’Italia, e la quantità di parole italiane usate nelle pubblicità o che sfruttano senza saperlo è sbalorditiva.
La mia escursione alle Elbow Falls con Tim e Gail mi ha fatto capire la devastazione causata dalle piogge del 2013, che avevano causato un’inondazione che ha completamente rivoluzionato lo scenario di questa zona, poco fuori Calgary, nonché provocato la fuoriuscita del Bow River, il fiume che passa proprio attraverso la città (l’acqua era arrivata a coprire il primo piano degli edifici del centro).
Sono tante le storie di ricostruzione e rinascita che ho sentito riguardanti l’Alberta, tra cui c’è anche quella di Fort McMurray, ovvero una piccola città evacuata completamente prima di venire rasa al suolo dalle fiamme di un incendio divampato a causa della secchezza del clima della zona. Penso che i canadesi siano davvero un popolo umile e sincero, che porta su di sé le sventure con coraggio e organizzazione, senza perdere mai la speranza né la disponibilità ad aiutarsi a vicenda. Nominando l’accaduto si vede l’orgoglio sulla faccia delle persone che ne parlano, proprio per come la situazione è stata gestita nonostante sia una vicenda così terribile.
Nel finesettimana mi sono recata insieme ai miei amici al rodeo di Strathmore; il clima è passato dalla pioggia del mattino al caldo torrido (sui 30 gradi credo) del pomeriggio, cosa che ci ha spiazzato e quasi fatto prendere un colpo di calore. Vedere dal vivo questa manifestazione, deprecabile dal punto di vista animalistico, mi ha fatto respirare a pieni polmoni l’atmosfera western della zona, ed è anche stata un’occasione assai speciale e strana di intrattenimento.
Verso la fine del mio soggiorno la stanchezza stava cominciando a farsi sentire, ma ho cercato di non rifiutare nessuna nuova esperienza, come la visita all’Heritage Park di Calgary, un parco a tema storico che racconta le origini del Canada attraverso ricostruzioni di case del periodo originali, provenienti da varie parti della zona. Certo, due secoli di storia possono sembrarci un’inezia ma l’idea di un museo a cielo aperto mi ha conquistata, proprio per l’immediatezza e la semplicità con cui si finiva ad appassionarsi per ciò che si vedeva; non capita tutti i giorni di volare su una giostra degli inizi del ‘900!
Uno dei luoghi più magici nel parco nazionale di Banff è sicuramente Lake Louise, visitato con le mie amiche, sia per il suo colore quasi innaturale sia per la zona particolarmente suggestiva in cui è situato. Dopo esserci bagnate le mani nella sua gelida acqua celeste siamo andate a scaldarci in una sorgente calda naturale; sebbene mi aspettassi una grotta, la sorgente era una semplice piscina all’aperto, piena di gente e con l’acqua che scorreva naturalmente a 40 gradi...era come trovarsi in un gigantesco idromassaggio, e per fortuna fuori faceva freddo o sarebbe stato insostenibile!
Tim e Gail un giorno mi hanno portato a pranzo sulla Calgary Tower, una torre che in passato era l’edificio più alto della città, e che rendeva caratteristico lo skyline del centro. All’ultimo piano si trova un ristorante che gira molto lentamente, ma permette di osservare tutta la zona di Calgary (825 km quadrati) e perfino scorgere alcune città vicine! (Ricordo che una di esse l’avevamo raggiunta dopo un’ora d’auto). Il giorno dopo per dirmi addio Gail mi ha accompagnato a visitare lo zoo, comprandomi perfino dei peluche (un castoro e una renna) come ricordi. Non abbiamo passato tanto tempo da sole, poiché spesso doveva lavorare, ma il fatto che avesse preso un pomeriggio libero solo per portarmi in giro mi ha fatto capire quanto tenesse a me. Non so come spiegare la riconoscenza verso due persone che hanno reso così speciale e fantastica la mia esperienza in Canada. Appena tornata a casa ho scritto una mail ai miei host genitori per ringraziarli, e mi tengo ancora in contatto con loro ma mi mancano moltissimo; sarà sicuramente la gente che ho conosciuto ciò che mi mancherà di più di questo paese. Dire addio ai miei amici non è stato facile: l’ultimo giorno ci siamo ritrovati per una piccola festa, sebbene fossimo tutti tristi di lasciarci, e questa volta per davvero. Non piango mai quando devo dire addio a qualcuno ma il mio cuore ha lasciato una sua parte con quei ragazzi così dolci e fantastici da avermi fatto sentire come una loro sorella per un mese. Spero di poterli rivedere un giorno, e con alcuni di loro sto cercando di tenermi in contatto tramite mail o sms.
Questa esperienza mi ha lasciato un messaggio importante, ovvero che si può sempre fare di meglio e che bisogna sempre pretendere il meglio da noi stessi; mi ha fatto capire il valore della gentilezza e dei sorrisi, mi ha spinto a osservare il mondo da prospettive diverse. Consiglio a tutti questa esperienza, non tanto perché penso che sperimenteranno quello che io ho provato, ma proprio perché è qualcosa di fronte a cui ti trovi disarmato e devi munirti di pazienza e di capacità di adattamento per riuscire ad apprezzarla appieno. Se mi chiedessero di tornare, prenderei il primo volo; il Canada non è un paese perfetto ma mi sento come se avessi lasciato un capitolo in sospeso, e non vedo l’ora di continuarlo.