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ITALIA: what else?

“E’ strano ascoltare quel testo letto con il tuo accento, sembra esotico.” A dire queste parole, una piccola e timida ragazzina asiatica. Stavo leggendo la traduzione di una canzone norvegese che avremmo cantato per le hostfamilies, e naturalmente il mio accento italiano rendeva tutto ancor più lontano dall’originale.
La frase della ragazza mi era rimasta in mente per un po’.
A me, lei sembrava esotica. O forse stavo solo sbagliando prospettiva.
Tutto è relativo, no?

Un banale calzascarpe diventa oggetto d’ammirazione per il texano Kavi, mai visto e ritenuto invenzione straordinaria, mentre per l’italiano Alberto, l’uso norvegese di togliersi sempre le scarpe prima di entrare nelle case, nei dormitori, dal pediatra, diventa un’ossessione (ma quando, dopo una passeggiata nella foresta, siamo andati a mangiare in un rifugio costruito dai Lions, ammetto che mi sono sentito a disagio ad avere le scarpe ancora addosso e a non potermele togliere). O anche una grande invenzione norvegese, un taglia formaggio dal nome complicato, utilissimo e banalissimo nel regno di Harold V, è qualcosa che ha lasciato stupite tutte le nazionalità (eccetto gli altri scandinavi, che rivendicano l’invenzione come propria). O le cinture di sicurezza, odiatissime da alcuni ragazzi (in alcuni paesi non sono obbligatorie), mentre per il piccolo Wiliam di un anno e mezzo (il bambino della famiglia che mi ha ospitato), sono naturalmente parte dello stare in macchina, tanto che appena mi siedo accanto a lui, educatamente mi dice in norvegese di allacciarmele. O i pasti: in Norvegia, colazione, merenda a metà mattina, pranzo a mezzogiorno, cena alle 17, spuntino alle 20, di solito con solo un piatto caldo al giorno.
Anche la lingua diventa relativa. Soprattutto l’accento. Le cadenze si mischiano unite da una lingua franca diversa da quella di Jessica, della britannica Birmingham.
Dopo un mare blu, un’altra immensa distesa di verde scuro, sua gemella nell’idea di impenetrabile e oscura natura. Solo qualche coraggiosa casetta rossa riusciva a violare la forza degli alberi.
La prima immagine della Norvegia è stata questa. Un risveglio un po’ traumatico dopo la bellezza cittadina dello scalo a Parigi, con la Defense e la Tour Eiffel che si dividono le sponde della Sena. Questo piccolo regno, reso grande dall’orgoglio del suo popolo, ha un fascino poetico nella sua immensa pace. “Norway. Powered by nature” è l’accoglienza per ogni viaggiatore all’aeroporto di Oslo. Anche se è stata migliore quella della famiglia Soos, un grande clan con due generazioni dedite al Lionismo. Dal patriarca, Stefan, di origine ungherese, camp leader, fino a Michelle, sua figlia e la mia hostmum, che ha sopportato me e Kavi, l’altro hostson, facendoci amare il suo paese. Lei, che pur di realizzare il camp, è venuta con Cecila, la sua piccolina di neanche sei mesi, subito adottata da tutti noi.
Il nome del Camp è “Imagine Peace”. Mi aspettavo discussioni e incontri molto seri, un po’ per mia formazione. Invece no. La pace, più che discussa, l’abbiamo costruita. Le interminabili partite a pallavolo tutti insieme hanno dato molto di più che ore di possibili discussioni. Questo camp ha creato reti di amicizia fra vari paesi, fili rossi che uniscono persone in stati diversi e, fino a non troppo tempo fa, anche nemici. Ha dato a chi veniva da luoghi non molto fortunati l’idea di uno spazio libero, in cui esprimere se stessi senza problemi. Questo è stato il tema di una bella chiacchierata a tre, fra me, un ragazzo indiano e uno israeliano, ma cristiano. Quest’ultimo si lamentava di come in Israele generalmente chi incontrava fossero persone nervose e scontrose, e che non potesse portare nemmeno un orecchino senza venir additato. Tralasciando ogni discorso di tipo politico, la Norvegia gli sembrava il paradiso. E in un certo senso, per noi lo è stato. E ha permesso a ognuno di noi di portare a nelle nostre case, nei nostri paesi, esperienze belle e un sogno da far rivivere. Un piccolo camp “Imagine Peace” nei nostri cuori.
“Ja, vi elsker dette landet” (Si, noi amiamo questo paese) è l’inizio dell’inno norvegese. Penso di poter dire senza problemi che tutti noi, 32 partecipanti di 29 nazionalità diverse, ci porteremo sempre dentro. Grazie ai Lions ora siamo innamorati di quel piccolo regno scandinavo, quindi,

Tok Lions! (grazie Lions)